C’è una canzone malinconica dell’indimenticabile Jannacci in cui un ragazzo in difficoltà si rivolge a una persona chiedendogli aiuto. E questa persona, un efficiente quanto indisponente – e forse stereotipato – uomo d’affari milanese, gli risponde “Ma se me lo dicevi prima…”.
E l’altro: “Ma io ho bisogno adesso, io sto male adesso”.
Oppure ci sono i battibecchi coniugali più logori immaginabili: “Non ci sei mai quando ho bisogno di te”, “No: ora non lo voglio più: mi serviva prima”.
Oppure l’eterno rincrescimento per non aver fatto una certa battuta al momento giusto, per non aver avuto una certa idea quando sarebbe servita.
In questa rubrica, in fondo, nelle prime tre puntate (e questa non fa eccezione direi) abbiamo parlato di tempestività, del valore della disponibilità del servizio dell’energia quando serve, che equivale a parlare del valore che apporta al sistema la capacità, da parte di generazione e consumo, di “spostare” la propria produzione o domanda.
Secondo la Commissione Europea la domanda elettrica continentale in grado di fornire servizi di flessibilità sarà nel 2030 di 160 GW, di cui un 10% in Italia, grosso modo la metà di tutte le fonti rinnovabili non programmabili oggi installate da noi. E sempre più questa capacità sarà connessa alle reti locali.
È evidente che tra considerare o meno questo potenziale c’è in mezzo una grande differenza in termini di fabbisogno di infrastrutture, relativi costi, emissioni dannose per il clima o localmente.
Finché l’energia aveva una forte componente di costi marginali di generazione rispetto al totale dei costi medi, il quando era meno rilevante: comunque quell’energia costava. Ma in un mercato che sarà presto dominato dalle rinnovabili con costi medi privi di una componente marginale (o di costi variabili che dir si voglia) farà un’immensa differenza di costo il consumo in un momento di sovrappiù di generazione o in uno critico con poca capacità disponibile di riserva.
Ora chiediamoci: i sistemi tariffari e i mercati dovrebbero cambiare per esplicitare di più l’importanza del quando?
In molti casi già lo fanno: per la componente energia, a livello di fasce o di ora a seconda dei clienti. Le tariffe di rete o di connessione, poi, hanno una componente capacitiva che fa pagare di fatto il diritto di consumare quando si vuole entro i limiti della capacità contrattualizzata. Più libertà “di picco” equivale a maggiori costi sostenuti dall’utente, o, detto in altri termini: chi vuole una più vasta opzione di maggior prelievo quando gli pare paga di più. Quindi di per sé una tariffa a forte componente capacitiva fa già il suo dovere in termini di incentivo alla flessibilità (in questo caso in forma di limitazione dei picchi).
In altri casi le tariffe discriminano a favore di chi rinuncia alla certezza dell’opzione di ritiro. Questo avviene da tanto per gli interrompibili, e anche nell’ambito del capacity market la domanda flessibile (quindi interrompibile, o meglio: spostabile) ottiene di non farsi carico della fee per pagare il capacity stesso.
Avrebbe senso anche modificare in generale gli oneri di rete e di dispacciamento sulla base della maggiore o minore criticità per il sistema delle ore di consumo? E quanto dinamicamente si dovrebbe farlo?
Un interessante intervento di RSE in audizione al Senato lo scorso febbraio mostra i potenziali benefici di tariffe dinamiche anche nella loro componente di oneri di dispacciamento o rete. Del resto, se la componente materia prima verrà progressivamente meno, è intuitivo che un segnale puntuale di scarsità debba arrivare da qualche altra parte.
È un discorso semplice? Non credo: ci sarebbero per esempio quanto meno effetti dinamici di feedback da considerare: se in alcune ore il prelievo è molto scoraggiato, quelle stesse ore potrebbero poi diventare di basso carico. E non è detto quindi che non possano sorgere difficoltà di pianificazione. Ma di certo, se il quando è via via più importante in termini di costi, dovrà diventarlo sempre più anche in termini di prezzi.