Il decollo dei prezzi dell’energia di questo autunno ha inevitabilmente visto un ritorno dei Governi sul tema, in qualche caso un po’ a gamba tesa rispetto ai meccanismi di mercato. Tant’è che oggi sembriamo ritenere normale che venga socializzata con le tasse parte della bolletta. L’Italia del resto ha già allocato a tal fine circa 3 miliardi e altri arriveranno con la legge di Stabilità che mentre scrivo questo testo è ancora in lavorazione. Miliardi destinati a chi? Alle famiglie a basso reddito? A tutte le famiglie? Alle imprese? A quelle energivore?
Una dichiarazione in Parlamento di Mario Draghi il 15 dicembre è sembrata “minacciare” norme del tipo Robin Hood Tax (ve la ricordate?) a danno degli operatori dell’energia che stanno traendo i maggiori windfall profit dai prezzi alti, cioè quelli che non hanno costi di combustibile e per i quali quindi i maggiori prezzi dell’elettricità all’ingrosso sono maggiori margini netti. Una cosa simile a quella che è stata proposta mesi fa in Spagna.
È giusto? È corretto che un’azienda elettrica che ha investito in un portafoglio di approvvigionamento poco legato al gas “restituisca” queste temporanee super remunerazioni più di quanto non facciano già i rinnovabilisti con il meccanismo delle aste FER? Ma da un punto di vista del tutto diverso ci si potrebbe chiedere anche: è corretto che un cliente finale di energia che ha coperto al 100% la propria fornitura con certificati da fonte rinnovabile ma non ha scelto un prezzo fisso veda la propria bolletta fluttuare secondo il prezzo marginale di borsa, determinato dal gas?
Ma facciamo un passo indietro verso le cause dei superprezzi. Cos’è successo?
A una crisi globale è seguita una ripartenza anch’essa sostanzialmente globale e più intensa del previsto, dopo un’estate in cui le incertezze finanziarie e dei tempi di ripresa avevano indotto prudenza da parte dei trader gas nell’immobilizzare capitale circolante per stoccare gas. E la ripartenza, che ha coinvolto la manifattura di tutto il mondo, non ha trovato basse solo le scorte di prodotti energetici, ma anche di molti altri semilavorati, per motivi del tutto comparabili a quelli applicabili all’energia.
I permessi ad emettere CO2 sono anch’essi cresciuti di prezzo (com’è normale nei periodi di boom), ma hanno un peso nella formazione del prezzo elettrico di circa un ordine di grandezza inferiore a quello del gas, ed è stata piuttosto mistificatoria la lettura di alcuni scettici della decarbonizzazione (poi smentiti autorevolmente) sul fatto che i costi alti dipendessero in modo rilevante dalla decarbonizzazione stessa.
Una carenza di gas, ma non di infrastrutture in Europa. I tubi e i terminal LNG non sono mai stati così abbondanti, e non sono pieni. Continuerà questa carenza? A giocare verso la risposta “no” c’è che l’effetto-scorte dovrebbe durare solo una stagione, e che gli USA, unica area esportatrice del mondo in cui il prezzo all’ingrosso locale non è salito in modo comparabile ad Asia e Europa a causa della relativamente scarsa capacità di export LNG, tenderanno a potenziare tale capacità.
L’impatto regolatorio del nuovo pacchetto gas proposto sempre il 15 dicembre dall’Europa non credo avrà un grande impatto di breve (e difficilmente potrebbe essere altrimenti). Un pacchetto che da un lato offre ai Governi membri che avevano fatto pressione il contentino di un sistema volontario di acquisti comuni del gas e regole più stringenti per lo stoccaggio, dall’altro nel medio periodo lancia una più rilevante campagna per la costruzione di un sistema idrogeno, ispirato – con molte eccezioni iniziali – alla vecchia dicotomia tra produttori e venditore da un lato e reti dall’altro, queste ultime soggette a obblighi di accesso a terzi, tariffe regolate, eccetera. Chissà se è una conseguenza della crisi, ma una cosa che mi è saltata all’occhio nel pacchetto è che di phaseout del gas non si parla. Si parla solo di sua (lenta) “trasformazione” in gas (e idrogeno) a basso contenuto di carbonio.