Dove troveremo un’alternativa ai circa 30 miliardi di m3 annui di gas che importiamo dalla Russia?
Intanto, mentre scrivo questo testo non sembra affatto chiaro quando dovremo effettivamente trovare quest’alternativa, visto che il Governo italiano, allineato con quello tedesco, non ha mai espresso la volontà di ridurre effettivamente le importazioni, né Gazprom ha per ora mai seriamente minacciato di chiudere i rubinetti (e sappiamo quanto farlo sarebbe costoso per il regime russo).
Il ministro Cingolani, con parole un po’ pop forse ma a mio avviso in modo corretto, ha riferito in Parlamento che gli aumenti di prezzo postbellici sono riconducibili a speculazioni nel lato della domanda, il che potremmo in altre parole definire come effetto-panico.
Prezzi che però non impediscono al Governo, al momento in cui scrivo, di auspicare azioni di riempimento degli stoccaggi appena possibile, anche garantendo i trader rispetto al rischio che il valore del gas che estrarranno il prossimo inverno sia più basso di quello che hanno comprato per iniettarlo. Un rischio non così improbabile, visto che i prezzi potrebbero scendere per vari motivi: per una soluzione del conflitto, per esempio, magari addirittura per un cambio di regime in Russia con normalizzazione dei rapporti, o – guardando ipotesi meno ottimistiche – per effetti di calo della domanda dovuti a recessione causata proprio dal picco dei prezzi iniziato ormai sei mesi fa. (Se guardiamo alla storia dei prezzi del petrolio e delle recessioni, è un classico che a picchi relativamente prolungati seguano recessioni. L’unica novità oggi, da questo punto di vista, sarebbe che la recessione è più legata al prezzo del gas che a quello de petrolio).
Dunque, qualcosa di un po’ strano c’è, no? In un contesto di prezzi ulteriormente aumentati con la guerra, in assenza di qualunque razionamento eccezionale dell’offerta per causa bellica fino a ora e di azioni dei Governi per contenere bollette (anche sulle seconde case, anche per chi non ha problemi di ISEE), qual è il grande assente?
Io direi che manca il risparmio energetico. Che ci permetterebbe di farci meno male.
Un articolo uscito sul numero di fine marzo 2022 dell’Economist si chiede dove sia finito lo spirito europeo di inizio anni ’70, quando diversi Paesi risposero allo shock petrolifero con azioni di responsabilizzazione come riduzione della velocità massima delle auto per risparmiare, o restrizioni alla loro circolazione in città, o valori massimi alla temperatura degli edifici. Si chiede l’Economist se siano 50 anni di pace e benessere ad averci come effetto collaterale resi incapaci di ridurre i consumi di energia in risposta alla crisi in atto. Ma un’ipotesi alternativa e a mio avviso più calzante che l’articolo si dà è che siano i decisori, cioè i Governi, a dare oggi erroneamente per scontato che i cittadini siano incapaci anche di minimi sacrifici, e che per questo si siano tenuti ben lontani dal chiederne alcuno.
Un’obiezione da liberale a questo punto potrebbe essere che con questi prezzi i consumatori hanno già intrapreso le azioni di riduzione dei consumi che ritengono opportune, e che ulteriori azioni imposte sarebbero troppo dirigiste. Ma troverei questa risposta un po’ miope. Non perché i mercati in astratto non funzionino, ma perché nel settore retail dell’energia non è affatto vero che il segnale di prezzo arrivi tempestivamente. Infatti, le offerte commerciali sul mercato libero (giustamente) propongono prezzi fissi aggiornati anche solo annualmente, e anche coi contratti indicizzati allo spot le bollette arrivano a consuntivo quando è già troppo tardi per reagire a un picco di prezzo.
Per questo direi che sì: l’elasticità al prezzo, o più in generale il risparmio, sono la grande assente tra le politiche per emanciparci dal gas russo, o più semplicemente per ridurre al massimo i danni di questa crisi. E non riterrei dirigista che il Governo facesse campagne, almeno informative, per aiutare i cittadini a evitare la botta delle bollette, o delle tasse usate per calmierarle.