Ci sono servizi che oggi consideriamo tanto essenziali da sembrarci naturale che siano considerati beni pubblici e trattati con forme di gestione amministrata pubblica o comunque garanzie regolate dei livelli di servizio e in qualche caso di costo. Tra questi, la gestione delle reti d’energia ed entro certi limiti la fornitura stessa d’energia: fa strano pensare che all’inizio queste infrastrutture siano nate con forme di spontaneità imprenditoriale prima di essere portate al controllo pubblico, inizialmente con la nazionalizzazione degli asset e poi con sistemi più moderni e sofisticati di regolamentazione del settore quand’anche affidato ad aziende a capitale e diritto privati.
Ho l’impressione che con la sharing mobility stia avvenendo almeno in parte lo stesso: una serie di iniziative pionieristiche stanno cambiando le nostre città con la prospettiva di trasformarle in un modo radicale e positivo.
Ricordate le campagne ridicolizzanti di vari commentatori conservatori rispetto ai monopattini? Ecco: quegli stessi oggetti ormai coprono una parte rilevante della mobilità individuale (condivisa e no) e la loro semplicità ed economicità sta dando in particolare alle giovani generazioni uno strumento fondamentale di libertà logistica urbana.
Nella mobilità condivisa della prima ora, però, protagoniste sono state spesso le aziende del trasporto pubblico locale. Molti car sharing e bike sharing sono nati inizialmente per loro iniziativa, salvo poi essere sopravanzati per numero di veicoli e per modernità dai privati, oppure in qualche caso, come quello di Elettra a Genova, acquisiti e rilanciati dai privati stessi.
Per esempio il bike sharing a Milano è nato con il servizio del Comune basato sull’uso di stazioni di prelievo e riconsegna (stalli) e si è poi evoluto con i sistemi free floating dei privati. (Una curiosità: se i servizi di condivisione bici station based ci sembrano obsoleti, pensiamo che Citybike di New York, il più grande sistema di sharing veicolare degli USA su cui Citybank ha investito solo nei primi anni quasi 50 milioni di dollari, funziona ancora felicemente in questa modalità e ha contribuito a cambiare NYC in un luogo decisamente più piacevole per le persone fuori da un’automobile).
Proprio questo dualismo storico pubblico-privato, in assenza di norme nazionali, ha determinato in Italia una certa ambiguità, per cui alcuni Comuni di fatto gestiscono le autorizzazioni ai servizi di mobilità condivisa come se questi fossero in concessione (cosa che – eventualmente giuristi mi correggano per favore – non credo possa avvenire senza una riserva di legge).
Se questo eccesso (forse) di protagonismo delle amministrazioni pubbliche è di fatto facilitato dalla preziosa merce di scambio che i Comuni hanno in termini di accesso gratuito ai parcheggi normalmente a pagamento o alle corsie riservate al TPL, non è affatto detto che un regime concessorio sia quello più sensato sulla base della struttura dei costi di un vehicle sharing e delle esigenze di omogeneità del servizio da parte dei suoi clienti. Perlomeno la cosa andrebbe studiata.
Insomma, il legislatore è indietro. Il che forse per ora non è stato un male perché ha permesso sperimentazioni diverse. Ma fa impressione vedere quanto servizi così preziosi, e con sinergie così forti in termini di riduzione del carico del TPL e, nel caso di mobilità elettrica come quella di Elettra a Genova, di benefici ambientali, siano per ora affidati all’iniziativa di aziende di mercato a cui è richiesta molta pazienza nel rientro degli investimenti.
Pazienza necessaria non perché il potenziale di attrazione dei clienti non ci sia, ma perché il raggiungimento di flotte minime (e di un po’ di familiarità tra il pubblico) è indispensabile a far decollare l’utilizzo e quindi il ritorno dell’investimento.
Insomma: nella sharing mobility chi si muove prima fa un lavoro fondamentale, un po’ come quei fratelli e sorelle maggiori che educano i genitori alla propria libertà, e vedono poi i fratelli e sorelle minori goderne come free rider.