In un “Punto” di Sparks, Francesco Lepre parla di come le fonti rinnovabili elettriche abbiano cambiato la forma dell’andamento medio dei prezzi orari dell’elettricità in un giorno feriale normalizzato, e anche di come in generale abbiano cambiato la volatilità dei prezzi, riducendola.
In questo senso, almeno così mi sembra suggerire l’intervista, si possono vedere le rinnovabili anche come un investimento in price risk management da parte dei soggetti avversi alla volatilità, com’è ragionevole supporre che i clienti d’energia siano.
E qui si apre una quasi eterna diatriba sui contratti di lungo termine (cosiddetti Power Purchase Agreement): come mai non diventano diffusissimi al fine di collegare capacità rinnovabile con acquisti di energia in modo da emancipare questi ultimi dalla componente di costo variabile del gas che è anche la principale fonte di imprevedibilità e shock di prezzo?
Di sicuro ci sono alcune ragioni tecniche che li rendono più difficili di quanto si possa immaginare di primo acchito. Per esempio la necessità di gestire l’incertezza sul profilo di produzione e quindi l’accesso ai servizi di bilanciamento – ovvero la gestione della responsabilità di riprodurre un profilo garantito per il cliente. Oppure la gestione del rischio-controparte: visto che questi contratti possono essere descritti come un contratto di somministrazione più un contratto derivato per differenze che stabilizzi il prezzo rispetto allo spot, il rischio che quest’ultima componente diventi anche molto sfavorevole per una delle parti c’è (perché se uno scommette sul fisso e l’altro sul variabile è evidente che la volatilità del variabile avvantaggerà una parte e svantaggerà l’altra in un modo non prevedibile a inizio contratto).
Ma tra le ragioni che rallentano i PPA c’è anche a mio avviso l’inevitabile attrazione del breve termine. Provo a dirla così: quale produttore di energia riesce a essere tanto ascetico da ignorare prezzi momentaneamente molto alti come oggi e vendere in un PPA al prezzo della media storica o al prezzo dei costi fissi più un margine ragionevole che, in teoria, dovrebbe essere sufficiente alla bancabilità del progetto?
La tentazione di guardare all’oggi è difficile da resistere. Infatti le previsioni istituzionali dei prezzi dell’energia sono perlopiù teneramente basate sulla teoria del “new normal”, cioè tendono a considerare il valore presente come una specie di baricentro rispetto a cui vanno motivati gli scostamenti, anziché guardare la prospettiva dei fondamentali e affermare che, magari, il baricentro è lontanissimo dal presente. Detto in altri termini: tendiamo sempre a pensare che l’oggi sia “normal”.
Mi rendo conto di aver preso una piega molto sul prezzo e poco sulla volatilità. Torno alla volatilità di cui parla Lepre.
C’è un aspetto delle rinnovabili, in particolare del fotovoltaico, che riducendo la volatilità ha messo paradossalmente in crisi alcune tecnologie che servono proprio a gestire l’intermittenza delle rinnovabili e di cui le rinnovabili stesse quindi hanno bisogno. Si tratta del fatto che lo spread notte-giorno è stato ridotto e reso meno prevedibile dal fotovoltaico, come Lepre mostra nei suoi grafici. Questo fa male ai business plan delle centrali idro a pompaggio (che fanno fatica a rispondere a spread istantanei mentre funzionavano bene quando c’era da mettere in cascina il nucleare francese di notte e produrre di giorno) ma non fa probabilmente bene nemmeno alle batterie, nel momento in cui gli spread complessivi tra ore si riducono.
Anche per questo, a mio avviso, impostare lo sviluppo di batterie, ma anche quello di sistemi della demand response, su forme centralizzate di approvvigionamento di capacità – lasciando poi gli operatori liberi di concorrere per costruire le soluzioni – è forse la scelta più opportuna. E infatti, almeno per le batterie, è quella intrapresa dal regolatore.