di Michele Governatori
Michele Governatori è autore di Derrick Energia, un canale informativo su
energia e ambiente sull’omonimo blog e su Radio Radicale.

È mancato l’anno scorso l’economista Jean-Paul Fitoussi, che ebbe anche un incarico di consulente per il governo francese e nel 2010 fece una tournée in Italia in cui fu audito al Parlamento.

Fitoussi in quell’audizione raccontò gli esiti della commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi (i primi due sono altri celeberrimi economisti e premi Nobel attenti a crescita, sviluppo, welfare) che su incarico dell’allora presidente francese Sarkozy aveva fornito indicazioni per un superamento del PIL come indicatore di sviluppo e di benessere.

Tra i punti caratterizzanti a cui arrivava lo studio c’era quanto segue (e se si tratta di una descrizione oggi in parte superata è proprio anche grazie all’esito di analisi come quelle di cui stiamo parlando):

  • Le statistiche pubbliche non danno informazioni sulla distribuzione delle variabili misurate, ma solo sui valori medi. Per questo la gente perde fiducia nelle statistiche, e la politica che le usa, a sua volta, perde credibilità e viene percepita come menzognera.
  • Occorre dunque, per esempio, sostituire nelle statistiche pubbliche le medie con le mediane. (Ricordo a chi non s’interessa di statistica descrittiva che la mediana è il valore di una variabile in corrispondenza del quale la metà della popolazione sperimenta valori non più alti e l’altra metà valori non più bassi, per cui, per esempio, se tre persone hanno reddito 1 e una quarta ha reddito 5, la media è 2, ma la mediana è 1. Si vede che la mediana è molto più informativa riguardo alla frequenza, o probabilità di tale valore).
  • Il PIL misura tipicamente male alcuni valori, tra cui la qualità dei servizi pubblici come quelli sanitari. Per esempio negli USA la quota di PIL riferibile ai servizi sanitari è maggiore di quella in Italia, mentre non lo è in termini mediani la possibilità di accesso ai servizi sanitari di un americano rispetto a quella di un italiano.
  • Il PIL poi si comporta in modo controintuitivo quando valorizza beni che potremmo definire “lenitivi”, per esempio il consumo di armi negli USA, che non indica benessere, bensì un tentativo di lenire situazioni di disagio (in questo caso l’insicurezza).
  • Il PIL, ancora lui, non tiene conto della distruzione di capitale (per esempio: se c’è un terremoto il PIL aumenta, se c’è una sciagura idem).

Più in generale, secondo la commissione servono indicatori che misurino la qualità della vita delle persone, anche identificando beni meritori quali educazione, occupazione, salute, stato dell’ambiente, che hanno un effetto diretto sulla vita della gente.

Ok. Perché dunque questo mio pippone iniziale sui limiti del PIL? Perché un paper appena uscito della Banca d’Italia mostra una correlazione che di primo acchito contraddice l’incapacità del PIL di misurare la qualità della risorsa ambientale.

Si tratta di un lavoro intitolato “Dinamica delle temperature e attività economica in Italia: un’analisi di lungo periodo” di Michele Brunetti, Paolo Croce, Matteo Gomellini e Paolo Piselli, disponibile online sul sito della Banca. Un lavoro che indaga empiricamente, dopo un’analisi molto utile della letteratura già presente in materia, il rapporto storico tra valore della produzione economica italiana (PIL, appunto) e temperature, dall’inizio del secolo scorso a oggi, per poi interpolare i risultati e quantificare le aspettative di alterazione del PIL futuro legate a diversi scenari di riscaldamento dell’ambiente italiano.

Riscaldamento che, ricordano gli autori, ammonta a già circa 2 gradi rispetto all’inizio del ‘900 – come dire che per quanto riguarda l’Italia ci siamo già ampiamente giocati il limite dell’accordo di Parigi – di cui, e questo è ancora più impressionante, circa 1,5 gradi nei soli ultimi quarant’anni.

Coerentemente con altra letteratura applicata ad altre zone e periodi, gli autori osservano che il caldo riduce la produttività e quindi il valore economico della produzione. Non in modo lineare, come si può intuire, bensì in modo più che proporzionale e con un segno che cambia attorno ai 15 gradi medi giornalieri. Man mano che ci si scosta in alto o in basso da questo valore, l’economia ne risente negativamente in modo più che proporzionale allo scostamento.

Strano? Direi di no: un ambiente in cui non si patiscono caldo e freddo è un posto in cui si vive e lavora meglio. E questo vale non solo per le persone, ma ancor più per i sistemi agricoli responsabili di una parte rilevante dei risultati.

Se ci riscaldiamo di un altro grado e mezzo di qui a fine secolo, calcolano gli economisti di Bankitalia, il PIL di allora sarà più piccolo di un valore tra il 2,8 e il 9,5% rispetto a quanto sarebbe stato senza riscaldamento. L’ordine di grandezza è quello di un decimo di punto percentuale all’anno ogni anno.

Torniamo dunque, in conclusione, a dove eravamo partiti. Se è vero che il PIL a volte non coglie il danno ambientale, è altrettanto vero che quest’ultimo – almeno in termini di danno climatico – il PIL lo danneggia eccome.