Com’è andata a Baku

Dic 4, 2024 | L’Approfondimento di Michele Governatori

La conferenza sui cambiamenti climatici di Baku è iniziata con il presidente dell’Azerbaijan che dichiara che le energie fossili sono un dono di Dio e che quindi non si può biasimare chi le ha se le vende sul mercato a chi le vuole.

È affascinante constatare come le tautologie o i finti sillogismi siano diffusi nella retorica politica, apparentemente senza suscitare molte reazioni negative. Se il gas azero è un dono di Dio, cosa che non ho alcun elemento per negare, forse si può affermare che un clima mite, la disponibilità di acqua, le aree agricole da proteggere dalla desertificazione lo siano altrettanto.

Partita così, la COP si è chiusa con quello che la maggioranza dei commentatori considera un esito deludente: un accordo su una somma di 300 miliardi di dollari all’anno fino al 2035 che i Paesi sviluppati si impegnano a trasferire a quelli che lo sono meno, nell’ambito di un principio consolidato nelle politiche del clima sul doppio binario dello sforzo economico, che segue da un lato la responsabilità storica più lunga sul clima che hanno le prime economie a essersi industrializzate, dall’altro il fatto che per fare investimenti servono i soldi, e che, visto che spesso le azioni a minor costo unitario di mitigazione (cioè di riduzione delle emissioni dannose) sono nei paesi in via di sviluppo, occorre finanziarle.

Di questi costi di mitigazione c’è nel documento finale della conferenza anche una quantificazione, sempre relativa ai paesi in via di sviluppo: circa 500 miliardi di dollari all’anno. I costi di adattamento (cioè di protezione dalle conseguenze ormai acquisite dei cambiamenti climatici) ammontano invece a circa 300.

Manca nell’accordo ogni accelerazione e perfino ogni richiamo agli obiettivi della COP precedente sull’uscita dai combustibili fossili, che quest’anno non sono proprio citati nell’accordo finale. Non solo: l’impegno di contenimento dell’aumento di temperatura è tornato a essere menzionato nella sua versione della COP di Parigi, in cui il limite invalicabile sono 2° di riscaldamento mentre gli 1,5° sono solo auspicati. Si torna così in qualche modo indietro rispetto alla COP di Glasgow dove la scelta era stata di concentrarsi sul più stringente dei due obiettivi.

Sulla base di un articolo dell’Economist di novembre 2024 riguardo ai costi della decarbonizzazione dell’economia, tornare a ragionare sui 2° potrebbe essere meno nocivo di quanto sembri. L’Economist infatti sostiene che i costi stimati della transizione sono in genere esagerati per eccesso, e un motivo è proprio che si rincorre un obiettivo (1,5° di riscaldamento massimo) che è pressoché già stato mancato e che quindi ha i costi alti di ciò che è quasi impossibile. Un altro motivo della sovrastima è che non si tiene conto del mare di incentivi alle fonti fossili (il 7% del PIL mondiale secondo il Fondo Monetario Internazionale) che ostacola lo sviluppo delle tecnologie verdi e quindi dovrebbe essere considerato tra i costi dell’inazione, non delle politiche del clima.

E proprio i danni economici che subiremmo dal fallire le politiche del clima sono secondo l’Economist la voce più sottostimata, il che contribuisce a sbagliare per eccesso la previsione del fabbisogno economico netto delle politiche del clima. Stime troppo alte, sostiene l’Economist, rischiano di diventare un alibi per l’inazione climatica.