Pur essendo io un fan delle fonti rinnovabili, non mi sono mai sentito a mio agio quando le sento promuovere principalmente con l’argomentazione che ci liberano dalla dipendenza energetica. Sì, certo, è vero: sono fonti tipicamente più vicine al consumo e sostituiranno sempre più (e infine del tutto) l’import di energie fossili. Ma quella dell’autarchia resta un’illusione. A mio avviso pericolosa.
Perché un’illusione? Perché salvo tornare all’era della pietra avremo sempre bisogno di qualcosa che non sappiamo fare o non abbiamo in casa. Siano tecnologie, terre rare, microchip. Gli stessi impianti per le fonti rinnovabili sono fatti anche di cose che non abbiamo, e infatti, all’argomentazione dell’indipendenza energetica dei rinnovabilisti, i fan delle fossili tipicamente rispondono citando le terre rare o la delocalizzazione della produzione di pannelli (e su questo hanno ragione).
Interdipendenza è anche bisogno semplicemente di clienti. A chi vende l’Italia le cose che sa fare solo lei? Solo ai concittadini? Chi compra il nostro design, la nostra tecnologia, chi usa i nostri servizi turistici?
E anche nei casi in cui è possibile, l’autarchia è costosa.
Nei corsi di economia internazionale una delle prime cose che si studiano è un’applicazione in cui si dimostra (è veramente facile, anche per i non economisti) che se ci sono due mercati in precedenza separati che vengono interconnessi il risultato complessivo è un aumento del benessere generale. Anche se qualcuno nell’immediato ci perde (per esempio ci perdono all’inizio i produttori locali di un bene che inizia a essere importato, perché subiscono una concorrenza che all’inizio non c’era. Però nel medio periodo questa concorrenza rende più competitivi quegli stessi produttori e apre loro un nuovo mercato).
Se il sogno dell’autarchia è complicato e costoso, mi sembra ancora più interessante notare che può essere pericoloso. E qui veniamo a Bastiat.
L’interdipendenza economica tra Paesi e blocchi di Paesi del mondo porta necessariamente alla costruzione di regole comuni e quindi di un confronto e una dialettica anche politici e culturali. La delocalizzazione di produzioni si lega allo sviluppo di investimenti esteri che hanno l’effetto di accelerare lo sviluppo in Paesi che li ospitano e nello stesso tempo di generare interdipendenze, interessi incrociati. E se le interdipendenze creano spesso complicazioni di vario tipo, esse creano anche la continua necessità di confronto su regole comuni e rendono virtualmente impossibile per un pezzo di mondo considerarsi indifferente alla sorte del resto del mondo.
Pensiamo a che fine hanno fatto o stanno facendo i Paesi che s’illudono di potersi chiudere dentro ai loro confini. Soprattutto a che fine fanno i loro cittadini in termini di ricchezza, sviluppo, opportunità, libertà.
Che alla guerra disastrosa della Russia contro l’Ucraina l’occidente possa rispondere con sanzioni economiche dipende proprio dall’interdipendenza commerciale. Mentre scrivo questo pezzo, Gazprom ha per l’ennesima volta, e in modo sempre più accorato, dichiarato che non intende chiudere i rubinetti del gas, perché da quelli dipende la vita stessa dell’economia russa e la sopravvivenza del suo regime. Nello stesso tempo, chi quel gas lo usa può decidere di consumarne meno per dare un segnale che è forse il modo più efficace di rispondere, prima delle armi. Armi che se usate su scala globale sarebbero esiziali per l’umanità.