I prezzi volatili dell’energia elettrica non sono sempre esistiti. Sono stati introdotti in Europa grosso modo all’inizio di questo secolo nella convinzione, allora prevalente, che siano uno strumento utile per orientare le scelte di investimento dei produttori (soprattutto) e dei consumatori dei clienti. Oggi, quel che abbiamo cercato in passato sembra a molti un problema, e governi e regolatori hanno reagito alle crisi (post COVID e invasione Ucraina) cercando di limitare i movimenti repentini nel prezzo dell’energia su molti fronti diversi.
È proprio il caso di parlare di corsi e ricorsi della storia.
Quando furono introdotti i mercati spot dell’energia, si riteneva che il decisore (e monopolista) pubblico non fosse in grado di valutare correttamente, senza un mercato più sviluppato, la scarsità a breve o a lungo termine dell’energia né di dimensionarne correttamente gli investimenti. E qualche ragione questa visione doveva averla, se è vero che abbiamo appena festeggiato il ventennale di un blackout nazionale dovuto a una penuria di capacità di generazione rispetto alla domanda di punta e una senescenza degli impianti che poi in regime di mercato sono state ampiamente superate. E non solo senescenza: il parco elettrico dell’Italia del blackout era anche molto più sporco di quello di oggi, con tanti impianti a ciclo convenzionale alimentati massicciamente a olio combustibile (chi come me ha iniziato nel settore a fine anni Novanta fa in tempo a ricordare gli acronimi “STZ”, “BTZ” e “ATZ” a indicare un sinistro climax carbonioso di combustibili petroliferi per centrali elettriche).
Oggi siamo probabilmente nel pieno dell’inversione verso una new wave: quella in cui si pensa che i prezzi spot siano una fonte di incertezza che rende molto difficile fare investimenti.
Tutto è iniziato quando la tensione ribassista sulle borse elettriche dovuta all’aumento delle rinnovabili ha iniziato a rendere frequente l’emergere di prezzi non in grado di remunerare le centrali elettriche soggette a costi variabili di combustibile. Ragione che ha anche portato al diffondersi di meccanismi di remunerazione della capacità.
Ma c’è stato un colpo di scena, anzi due: mentre sembravamo incamminati verso prezzi spot sotto alla sussistenza di lungo termine del settore energetico, la fine del Covid e l’invasione dell’Ucraina hanno fatto cambiare il mondo portandoci a prezzi in grado di remunerare a sufficienza in grid-parity, cioè senza incentivi oltre al prezzo dell’energia, quasi qualunque fonte disponibile.
Questo non ha però fatto recedere dalla new wave di ritenere i mercati spot non sostenibili. L’ultima prova di ciò riguarda le scintille scoccate tra Francia e Germania in termini di strategia energetica europea, con la Francia che ha ottenuto un via libera da Bruxelles a incentivare con contratti alle differenze (cioè a stabilizzare il prezzo per lunghi periodi) perfino impianti nucleari esistenti, ampiamente ammortizzati ma che hanno bisogno di nuovi capitali per estendere la propria vita.
E nello stesso tempo i principali mercati energetici europei hanno introdotto misure per tutelarsi specificamente dai picchi alti di prezzo, con il recupero degli “extraprofitti” di aziende energetiche e, in parallelo e con effetti sui bilanci pubblici non proprio tranquillizzanti, anche di aiuto alle bollette dei clienti finali (un report del Governo di ottobre 2023 indica in 23 miliardi di € il costo dei provvedimenti governativi di mitigazione delle bollette nello stesso anno).
Chissà se la new wave si rivelerà una fase acuta di reazione alla crisi, oppure se stiamo assistendo a un lento addio ai prezzi volatili, con tutti i loro dolori e vantaggi, ma anche – ci spiega la teoria economica – la loro efficienza sociale.