SYD: Il volo del calabrone (Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov)

Mar 17, 2021 | SYD, SYD-DX

di Francesco Lepre
L’erba era alta, un metro, forse un metro e mezzo… o giù di lì, che non sapeva neanche cosa fosse il metro… però i rumori oltre quella coltre gialla di vegetazione la preoccupavano. E poi aveva fame, molta fame… troppa fame. Ma non riusciva a vedere niente. Spostava l’erba davanti a lei, ma c’era altra erba. Il vento soffiò e il leggero rumore delle foglie fu un sottofondo a quel frusciare vicino, in quel luogo qualsiasi dove non esistevano strade, come in qualsiasi altro posto. Il cielo plumbeo si stava scurendo sempre di più e una goccia cadde sulla sua fronte. I suoi cuccioli aspettavano il cibo, nascosti in quella tana di pietra dove voleva tornare il più presto possibile, ma non a mani vuote. Doveva cacciare, ma stando attenta. Lentamente sollevò la testa, annusò l’aria. C’era qualcosa, ne era certa. Oltre quel muro d’erba c’era qualcuno che si nascondeva. Le sue zampe posteriori si piegarono leggermente, sbilanciando il corpo all’indietro. Le zampe anteriori si staccarono lentamente da terra, per poco, qualche breve secondo e poi ricaddero al suono. Poi prese uno slancio e si sollevò sulle zampe posteriori. La testa alta, le braccia lungo il corpo. Lo sguardo fiero corse per interminabili secondi su quel mare di erba ingiallita dal sole. Una tavola impenetrabile, tutta uguale. Piatta, mossa appena dal vento. Tutta uguale intorno a lei…tutta, tranne che in un punto alla sua destra, dove l’erba era mossa irregolarmente da una macchia indistinta marrone. Fu l’istinto a gridare dentro di lei. Un attimo impercettibile e scattò verso quell’animale. Corse veloce. Prima a quattro zampe, poi si sollevò su due e capì che avrebbe corso meglio. Il suo pugno si serrò deciso, mentre nell’altra mano stringeva una lancia con una punta di selce. Il temporale che già da un po’ minacciava pioggia si fece sentire in un rombo, scatenandosi in gocce pesanti. Scuoiare l’animale fu cosa da poco e l’uomo peloso arrivò alla grotta stringendo in mano un pezzo di legno infuocato. I disegni rupestri si illuminarono tremanti mentre tutti si alzarono in piedi per adorare. Il cibo cambiò il suo sapore e i denti cominciarono a cambiare, come del resto la fisionomia del corpo. Concluso il pasto, il mondo non fu più lo stesso, perché i passaggi percorsi tutti i giorni per andare a caccia divennero sentieri e poi strade. Fu quando si sentirono nudi e infreddoliti, che decisero di indossare quella pelliccia. Ma la vanità stava nascendo allora. E fu così che l’uomo si adornò il copricapo con ossa di animale. E gli altri capirono che era importante, il più importante di loro. E mentre si incamminarono, lasciarono dietro di loro un uomo nudo che mordeva una mela, mentre molti altri di fronte a loro in ginocchio adoravano il sole e il mare e il vento e i fulmini… Smise di piovere quando il carro si fermò con le sue ruote di legno, proprio di fronte al fuoco dove gli operai lavoravano. Scese il re, solenne e ferito, perché qualcuno aveva inventato la guerra, anni prima tra due grandi fiumi. Spostare tutte quelle pietre e sollevarle fino a quasi centoquaranta metri sarebbe stato un sogno irrealizzabile senza l’uso dell’intelligenza. La tomba fu chiusa e fu riaperta: tutto fu trafugato, molto prima che l’impero si estendesse ancora. Ma intanto l’uomo aveva imbrigliato il vento e lo stringeva in un sacco di stoffe gonfie, mentre trainava avanti le navi. E quando il vento calava, giù sui remi a sudar fatica. Fu allora che qualcuno gridò di dargli un punto d’appoggio per sollevare il mondo…o così parve di sentire quando sollevarono l’ingresso di una nuova tomba, facendo leva con un tronco. Ma per il grano no, per il grano niente leve. Bastava il mulino mosso da un fiume, da un torrente… ma funzionò anche col vento. E la farina scivolava bianca dalla macina per fare del pane caldo e fragrante. Abbatterono alberi per il pane, perché fosse caldo e fragrante e abbatterono alberi per riscaldarsi. Abbatterono alberi per fare i vetri, perché i panni alle finestre trattenevano un po’ di vento, a volte l’acqua (se erano incerati), ma non facevano passare la luce del sole… appannavo. E servivano alberi per fare le spade, perché la guerra ormai era stata vinta e bisognava combatterne di nuove. Fu un periodo buio e freddo, ma forse ricordava male… All’improvviso per le strade di quel borgo cominciò a echeggiare solitario il suono di una ribeca. Tutti si voltarono e ascoltarono silenti, mentre una nota fu sostenuto da un violino. Si alzò in volo da un tronco e cominciò a ronzare un calabrone, nel silenzio di quelle persone vestite di stoffe e cappelli. Gli archi cominciarono a essere pizzicati mentre si aggiungevano i fiati. La donna allora si avvicinò alla finestra, ma le fu vietato di guardare quei camini che sbuffavano fumo nero. Il ferro strideva mosso da forze di meccaniche calde che avevano sempre ragione. Troppo neri i volti di quegli uomini per capirne il colore della pelle. Tutto cambiò di nuovo. Il calore dei forni imperlava i corpi di uomini e donne. E ci furono altre guerre, calde, infuocate da armi letali. E ci furono guerre fredde. Un uomo morì povero, perché era troppo presto perché diventasse ricco con quell’olio della pietra. Un uomo morì ricco perché capì l’importanza del mercato e delle sue dinamiche. Lo scricchiolio del ghiaccio sancì la prima crepa sul tetto del mondo. Il sole divenne violento. Il caldo torrido. I deserti invadenti e avidi, mentre un nemico invisibile e democratico fermò il mondo. Tutto. Tutto fermo. Allontanò tutti, gli uni dagli altri. E come sulla superficie di un palloncino che si gonfia, si allontanavano sempre di più gli uni dagli altri. E mentre quella musica continuava a suonare, una bambina indicò qualcosa in mezzo al mare. Una boa non lontana. Gli uomini cominciarono a pulirsi le mani e il viso dal nero di quel carbone che gli ostruiva il respiro e altri catturarono il sole per costringerlo a far girare i motori. Un giorno arrivò una pioggia forte che durò anni… o forse giorni. Una donna che parlava tutte le lingue del mondo superò il cielo e dall’alto vide che forse non sarebbe stato troppo tardi. E mentre un’impronta di una nuova Argo modificava per sempre il suolo polveroso di un pianeta inesplorato e l’occhio indiscreto e curioso dell’uomo scrutava una polvere meno rossa di quanto pensava, la donna si accorse che sulla Terra il vento aveva ricominciato a soffiare forte. Non più solo le barche, ma anche i treni di ferro e le auto di acciaio ora erano spinti dal vento. Chiunque avesse un secchio cominciò a raccogliere energia per darla a chi non l’aveva. Con spugne pulite cominciarono ad assorbire i rumori molesti e con spugne bianche lo sporco nell’aria. La Natura si calmò. Ci volle tempo, perché l’inerzia fu grande. Ci volle tutta la volontà del mondo, perché il mondo pretendeva volontà. Ma alla fine i padri conquistarono il perdono dei loro figli. E i figli raccontarono ai loro figli di quel tempo in cui il mondo stava per finire e solo la volontà degli uomini scongiurò l’epilogo. I figli dei figli lo raccontarono ai loro figli. E mentre i bambini si addormentavano nei loro letti, la storia narrata di generazione in generazione perdeva i suoi contorni nitidi, ma gli uomini del passato avevano salvato il mondo e questo bastava a loro per dormire tranquilli.   CREDITS Brani musicali, royalty free, utilizzati per questo podcast:
  • “Sick with you” di Ethan Schreiber
  • “Reflections” di Daria Novo