Tratto da PiazzaLevante.it
L’Europa si è data obiettivi estremamente ambiziosi e stringenti per la riduzione prima, e l’azzeramento poi, delle emissioni di CO2. Già al 2030, tappa intermedia del programma, le emissioni di CO2 di ciascun paese dell’Unione dovranno essere del 55% in meno di quelle del 1990. È prevista una completa ‘decarbonizzazione’ del continente al 2050.
Si tratta, come più volte ricordato, di uno sforzo gigantesco che cambierà il modo di vivere, di produrre, di consumare, di muoversi dei cittadini europei. Ci saranno conseguenze rilevanti di questo cambiamento, anche se non è ancora ben chiaro chi pagherà questa transizione sia in termini economici che sociali.
Il tema che vogliamo affrontare oggi, ponendoci dal lato dell’industria europea e italiana, è esattamente quello del percorso di questa transizione, della sua declinazione operativa con tutte le sue criticità e incertezze. Nessuno contesta l’obiettivo di lungo periodo. La questione vera, come al solito, perché la più reale e la più stringente, è la strategia e l’azione di medio periodo, quella che riguarda il domani e il dopo domani. In altri termini, come dice il nostro amico Carlo Stagnaro, la domanda fondamentale sottostante agli obiettivi è come questi possono essere raggiunti.
Dal punto di vista di un industriale quale io sono, infatti, è fondamentale che l’industria europea e italiana arrivi viva all’appuntamento finale.
Se si rifiuta la logica della decrescita felice che alla fine significa solo impoverimento infelice e che nessun Paese al mondo ha intenzione di seguire, e meno che meno quelli sulla via dello sviluppo, l’attenzione va posta sul percorso della decarbonizzazione, sulle tecnologie per raggiungerla, sui costi connessi, sugli impatti economici e sociali.
Ciò ripropone un dilemma difficile da risolvere: da un lato l’urgenza di intervenire sul climate change onde evitare il disastro ambientale che si profila, e dall’altro contemporaneamente la necessità assoluta di non desertificare industrialmente il continente perché ciò implicherebbe conseguenze economiche e sociali insostenibili e provocherebbe una reazione popolare ai processi di decarbonizzazione talmente forte da rimetterli gravemente in discussione.
Il tema della difesa dell’industria europea e italiana e della loro compatibilità e coerenza con i processi di decarbonizzazione non può essere lasciato soltanto alle lobbies confindustriali che svolgono il loro lavoro ma che ovviamente sono percepite come di parte.
L’industria e le imprese che la rappresentano sono un valore economico e sociale collettivo, in particolare quando accettano e si impegnano seriamente nei processi di decarbonizzazione, e non possono essere lasciate sole in questo sforzo.
Per il nostro Paese in particolare la vicenda del Covid ha mostrato una volta di più la centralità e l’enorme importanza del sistema industriale italiano, che ha retto con forza le conseguenze della pandemia, che sta sostenendo la ripresa da protagonista assumendo e non licenziando, che attraverso gli straordinari saldi della bilancia commerciale mostra il suo altissimo livello di competitività internazionale.
Mettere in crisi l’industria europea e al suo interno quella italiana o gran parte di essa avrebbe tra l’altro implicazioni geopolitiche gigantesche. Nel quadro internazionale di oggi, segnato da un profondo rimescolamento di carte all’interno del quale l’Europa sarà chiamata a nuove sfide, prima fra tutte quella di una difesa comune, per l’Unione depauperare il proprio potenziale industriale implicherebbe una caduta ulteriore di peso che potrebbe relegarla definitivamente a un ruolo di ‘colonia’ sempre più subordinata e dipendente di sistemi economici e industriali più potenti.
L’approccio nei confronti dell’industria dei grandi sistemi economici che competono con l’Europa, Stati Uniti da un lato e Cina dall’altro, è ben diverso: da loro l’apparato industriale è considerato una priorità assoluta. Ciò alla lunga rischia di creare e cristallizzare vantaggi e svantaggi competitivi strutturali e definitivi.
L’Europa ha deciso di essere la prima e la più virtuosa area del mondo nella lotta al climate change, anche se rappresenta meno del 10% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. Lo ha fatto sperando nel valore simbolico del suo operare e con l’intento di convincere le altre grandi nazioni del mondo a seguirla, a partire da Usa, Cina e India.
Si tratta di un azzardo perché non è affatto detto che le altre grandi potenze economiche del pianeta seguano lo stesso percorso negli stessi tempi e con le stesse modalità.
E di nuovo torniamo alla criticità di tempi e modalità.
L’azzardo europeo è ammissibile soltanto se la protezione e l’accompagnamento del nostro apparato industriale nei percorsi di decarbonizzazione diventa coessenziale alla strategia contro il climate change.
Purtroppo finora non è stato così.
Sembrano riprodursi sulla vicenda della transizione energetica e ecologica le stesse distorsioni cognitive già viste nel passato in tema di globalizzazione e finanziarizzazione, distorsioni cognitive marcate e gravide di conseguenze.
A proposito della globalizzazione, che pure tanti benefici ha portato soprattutto ai più poveri del mondo, sono state a suo tempo sottovalutate la declinazione temporale della stessa e le ripercussioni economiche e sociali provocate nelle economie occidentali su settori e regioni profondamente colpiti, nelle loro attività originarie, dalla violenza dei venti della globalizzazione. Ciò ha provocato soprattutto in Europa e negli Stati Uniti reazioni popolari durissime che hanno rimesso in discussione le stesse basi democratiche dell’occidente.
L’ubriacatura della finanziarizzazione esasperata del capitalismo mondiale non solo ha generato la profonda crisi economica mondiale post Lehman Brothers da cui usciamo probabilmente solo ora, ma ha generato un’ideologia della finanziarizzazione che ha portato ad esaperazioni di ogni tipo anche nel campo delle politiche ambientali. Che altro è scegliere strumenti finanziari per favorire i processi di decarbonizzazione con il mercato delle CO2 artificiosamente creato e artificiosamente gestito dalla politica europea?
La speculazione finanziaria oggi si è accanita su questi particolari titoli, scommettendo su nuovi prossimi rialzi per via delle restrizioni di Bruxelles che ha dato ad intendere che per favorire i processi di decarbonizzazione il prezzo delle CO2 deve salire fortemente. In prospettiva inquinare costerà di più ma le imprese produttrici di energia e in generale tutte quelle industriali per far fronte ai maggior oneri per acquistare certificati verdi cercheranno di scaricare sui consumatori questi aumenti.
Inoltre l’aumento delle quote CO2 attirerà sempre di più investitori finanziari i quali a loro volta alimenteranno una nuova crescita dei prezzi, creando nei prossimi mesi e anni un circolo vizioso infernale che può essere letale soprattutto per quella parte di industria che fa più fatica a decarbonizzare, ma che al contempo è cosi importante nel nostro Paese: acciaio, chimica, ceramica, carta, vetro, cemento, fonderie, i cosiddetti settori hard to abate, settori che pure in Italia lavorano insieme per proporre soluzioni che pratichino la decarbonizzazione ma garantiscano anche la loro sopravvivenza.
Occorre proporre a livello europeo un patto per la decarbonizzazione. Uno schema nel quale le industrie che accettano di praticare politiche e misure proattive per conseguire gli obiettivi proposti dall’Europa siano accompagnate e protette in uno sforzo finanziario, economico e manageriale volto a conseguire i target ambientali ma nello stesso tempo a mantenere il livello di competitività necessario per sostenere il confronto internazionale.
Questo patto deve contemplare l’accettazione del principio della neutralità tecnologica. Alla base di un pensiero ambientalista ragionevole e concreto sta un approccio scientifico e non ideologico che vede nella pluralità delle tecnologie, nel metodo dell’analisi sistematica dei dati e dei risultati e nella valutazione costi-benefici di ogni tecnologia l’unico possibile.
Ciò significa favorire il mercato e abbandonare processi eccessivamente dirigistici che rischiano tra l’altro di essere rigidi e di non cogliere appieno l’evoluzione tecnologica e l’innovazione. Questo adattamento è il compito delle imprese non della politica.
Ciò significa anche concentrarsi sul fine (l’abbattimento delle CO2) piuttosto che sui mezzi (le varie tecnologie a disposizione). È chiaro che le sole energie rinnovabili, solare e eolico, non sono sufficienti a risolvere il problema e ciò è tanto più vero in Italia dove la conformazione del paese e le sue bellezze naturali, oltreché gli ostacoli burocratici, rendono estremamente difficile raggiungere gli obiettivi programmati di installazione di impianti rinnovabili.
In attesa dell’idrogeno verde a costi sostenibili occorre promuovere e sostenere, oltre alla elettrificazione, altre tecnologie quali i combustibili alternativi frutto dell’economia circolare, il biogas, le CCUS (che sono la cattura, il confinamento e l’utilizzo delle CO2 dei processi industriali che non possono essere elettrificati, ad esempio i cementifici).
Occorre prendere in considerazione la proposta del governo spagnolo di escludere tutti gli intermediari finanziari e i fondi speculativi, limitando l’accesso al mercato delle CO2 solo alle aziende energetiche e industriali.
Occorre infine prevedere un Fondo per la decarbonizzazione dell’industria dotato di mezzi finanziari atti a sostenere i processi di decarbonizzazione dell’apparato industriale europeo. Taluni Paesi dell’Unione lo stanno prevedendo nei loro PNRR, altri no, e l’Italia è tra quelli che non lo hanno previsto. Questa situazione rischia di provocare asimmetria tra Paese e Paese e dovrebbe essere governata a livello di Unione.
L’Italia può avere un ruolo determinante nel sostegno di questo approccio. Draghi ha tutto il prestigio e la consapevolezza per poter condurre l’Europa su un sentiero che confermi l’impegno e gli obiettivi ambientali ma che riesca anche a delineare in maniera equilibrata e concreta un piano per la salvaguardia della sua industria.