Tratto da PiazzaLevante.it
Rifletto da tempo sul futuro dell’Europa, e sono convinto che gli anni che ci attendono saranno fondamentali per il futuro del continente. Un cambiamento di visione e di azione, dal mio punto di vista, è assolutamente necessario se non vogliamo essere spazzati via dalla storia e dai suoi venti impetuosi.
L’aggressione russa dell’Ucraina ai confini europei ci ha richiamati bruscamente alla realtà e ci ha fatto comprendere la precarietà degli equilibri sui quali abbiamo ritenuto potessero basarsi il nostro benessere e quieto vivere.
Abbiamo pensato per molto tempo di essere i primi della classe e di poter insegnare agli altri come si sta al mondo, forti delle nostre tradizioni democratiche, della costruzione di uno stato sociale che non ha eguali nel mondo, della convinzione di dover indicare a tutti cosa si deve fare contro il cambiamento climatico.
La risposta dell’Europa alla pandemia e la tenuta, fino ad ora, delle posizioni di sostegno economico e militare all’Ucraina sono stati fatti molto positivi tenuto conto che i veri effetti economici negativi della guerra sono ricaduti soprattutto sui cittadini europei. Ma se guardo al futuro dell’Unione in una prospettiva globale confesso che ho forti preoccupazioni per l’avvenire in termini politici, economici, demografici e strategici; e temo che senza un radicale cambio di passo perderemo sempre più terreno rispetto al resto del mondo e in particolare rispetto alle potenze americana e cinese.
La sensazione è che le altre grandi aree economiche corrano più di noi e siano molto più di noi concentrate sui temi della crescita, della tecnologia, dell’innovazione, delle imprese che cambiano il mondo.
Vediamo rapidamente i molti lati dolenti di quest’Europa e del suo difficile procedere, priva come è di una visione strategica per il suo futuro e apparentemente concentrata solo sulla lotta al cambiamento climatico, quasi che questo, insieme all’elettrificazione conseguente, fossero gli unici temi in agenda.
Dal punto di vista politico mai come negli ultimi anni si è consumata una crisi di leadership nelle grandi nazioni europee. Crisi aggravata dall’evidente difficoltà a raggiungere a livello di Unione Europea convergenze tra i vari Paesi e tra i vari interessi in gioco, come ha dimostrato l’incapacità di reagire collettivamente alla crisi energetica e di trovare soluzioni comuni: carenza contemporanea di leadership nazionali e di leadership europea.
Il Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione Europea appare incerto nelle prospettive e instabile dal punto di vista della guida, che è cambiata tre volte in pochi mesi; le elezioni francesi hanno mostrato le difficoltà di Macron, privo di una maggioranza parlamentare, e ne hanno ridimensionato le aspirazioni a una leadership continentale; la Germania, finita l’era Merkel e alle prese con una maggioranza politica molto eterogenea, vive con difficoltà la fine di un modello di business sul quale era stato costruito il suo primato economico (automotive, gas russo a basso prezzo, esportazioni a gogò specie verso la Cina); anche l’Italia brucia leadership alla velocità della luce ed è riuscita nella strabiliante impresa di mandare a casa Mario Draghi, un presidente del Consiglio di grandissima efficacia e di enorme reputazione internazionale.
Dal punto di vista economico ciò che colpisce è l’incoscienza con la quale non si fa fronte all’enorme espansione industriale di Stati Uniti d’America e Cina e anzi si considera di fatto larga parte dell’industria europea come una realtà marginale, di cui in definitiva si pensa di poter fare a meno, senza spiegare chi creerà ricchezza e benessere per le future generazioni.
Gli Stati Uniti stanno vivendo un’incredibile fase di rilancio delle filiere industriali interne, con l’ambizione di tornare a essere il sistema industriale più completo, autosufficiente ed avanzato al mondo. La Cina, investendo enormemente in tecnologia, si discosta dal modello della fabbrica mondiale di manifatture tradizionali che l’ha caratterizzata per tanto tempo e punta sull’intelligenza artificiale per conquistare una compiuta sovranità tecnologica e per essere la protagonista nell’innovazione più avanzata.
L’Europa comunitaria sembra soprattutto preoccupata di implementare il cosiddetto Green Deal e gli obiettivi totalmente irrealistici di decarbonizzazione all’orizzonte del 2030 e del 2055, incurante degli effetti sui suoi sistemi industriali. L’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato sulle pagine de ‘Il Sole 24 ore’ di domenica scorsa ha giustamente affermato in proposito: “Ormai sono diversi anni che l’Europa ha completamente smarrito la strada della competitività, continuando ad inseguire una visione demagogica e populista che porta alla sostanziale deindustrializzazione del nostro continente”. In altri termini non si comprende che senza le imprese e la loro capacità tecnologica e di innovazione non vi sarà alcuna transizione energetica.
Fortunatamente, in questo contesto così problematico, l’industria italiana è stata negli ultimi anni un formidabile asset per il Paese, sostenendo la crescita della nostra economia con performance superiori a quelle di tutti gli altri Paesi europei e perfino della Cina. È chiaro che l’Italia e la sua industria da sole non bastano, ma la loro eccellenza e la loro proiezione internazionale certamente aiutano.
Ciononostante, se riflettiamo sulla dimensione delle grandi imprese di tecnologia o sulle banche di grande dimensione, si vedrà che l’Europa negli ultimi vent’anni non è riuscita a esprimere un solo grande player mondiale all’altezza di quelli americani o cinesi, e ciò comporterà il rischio di una progressiva marginalizzazione dei nostri sistemi economici e industriali incapaci di esprimere qualsivoglia primato.
Sul piano demografico la popolazione del continente è la più anziana del mondo, con tutto ciò che questo significa in termini di spesa sociale e sanitaria ma anche di approccio culturale al futuro e all’innovazione.
I processi di integrazione e di inclusione di popolazioni giovani provenienti da altre parti del globo (in particolare ma non solo dal Nord Africa e dall’Africa sub-sahariana) procedono con fatica e sofferenza, nonostante l’enorme necessità europea di nuova forza lavoro anche qualificata.
Anche sul piano strategico gli interrogativi sono molti. Finora, come si è detto, l’Europa e i suoi Paesi membri, con l’eccezione ungherese, si sono mostrati compatti e coerenti nel sostegno all’Ucraina e all’alleanza atlantica ritornata fondamentale. Bisogna però ammettere che senza la forza e la determinazione degli Stati Uniti e del Regno Unito gli equilibri militari e strategici nell’Est europeo sarebbero stati assai diversi e molto più problematici per gli europei.
Ciò che colpisce è che la spesa militare dei Paesi dell’UE non è di poco conto, di gran lunga superiore a quella russa e vicina a quella della Cina se i dati riguardanti Pechino sono veri: più di 200 miliardi di usd l’anno di spesa europea, contro i 73 della Russia e i 250 della Cina. Nonostante ciò si è lontanissimi da una forza militare europea e non vi è nessun coordinamento tra i Paesi dell’Unione rispetto alla spesa militare.
Ma anche qui manca una visione. Quale deve essere il ruolo geostrategico dell’Unione?
Si diceva che i prossimi anni saranno cruciali se si vuole contrastare l’apparentemente inarrestabile declino europeo. Saranno indispensabili: la ricerca di una visione strategica che rilanci la crescita di un’economia efficiente e competitiva, un supporto prioritario alle politiche e ai sistemi industriali a partire da una nuova politica energetica, che non potrà esclusivamente basarsi sulle rinnovabili ma dovrà giocoforza prevedere il ricorso a energia di base decarbonizzata (turbogas con carbon capture e nucleare),una ridefinizione strategica e geopolitica nella quale l’atlantismo dovrà essere sempre più coniugato a una visione mediterranea, cruciale per la costruzione di rapporti di cooperazione con i Paesi del nord Africa.
In questo contesto l’Italia avrà un ruolo fondamentale. La nostra naturale proiezione verso il bacino del Mediterraneo e dei Balcani, la nostra affinità culturale ed empatia verso quelle popolazioni, la forza delle imprese e un modello di cooperazione e di trasferimento tecnologico che conosciamo bene fin dai tempi di Enrico Mattei, costituiranno strumenti fondamentali per la costruzione di nuovi equilibri economici e geopolitici, all’interno dei quali il nostro Paese deve fungere da propugnatore e traduttore dei valori dell’Occidente, della democrazia, dell’economia di mercato per quelle aree del mondo.
In un’Europa capace di uscire da una prospettiva di declino il ruolo dell’Italia sarà più strategico che mai.