Pur essendo un grande amante della musica, non mi piace molto il genere musical al cinema. Forse per via della mia forma mentis, troppo razionale per accettare di rientrare a casa ballando e facendo gli scalini a tre a tre mentre canto a squarcia gola e piroetto puntellandomi su indistruttibili ombrelli sottratti agli ignari passanti allegri e compiaciuti. Non so, la mia mente continua a vedermi inseguito dal portiere mentre grida “Ma tu guarda questo! Ahò, te la do io Singin’ in the Rain! Guarda che hai combinato co’ ‘ste scarpe tutte infangate!”
Quindi, quando mia figlia l’altra sera ha proposto di vedere The Greatest Showman, la mia prima reazione è stata quella di scambiare con mio figlio uno sguardo d’intesa (“stavolta la finiamo davvero la Chevrolet Z28 del ’69 della Lego”) e lasciare a mia moglie e a mia figlia il musical serale. Poi, un trailer diabolicamente ben fatto e gli occhi dolci di mia figlia mi hanno piantato sul divano con ancora non poco scetticismo nell’animo.
Primi anni del 1800: New York. Una città in preda ad un’esplosione demografica e industriale. Un cantiere a cielo aperto. È questa l’ambientazione di The Greatest Showman, un film di Jenny Bricks e Bill Condon e diretto da Michael Gracey.
Si tratta di un musical del 2017 il cui protagonista è liberamente ispirato a Phineas Taylor Barnum, discusso personaggio reale vissuto in quegli anni e da molti considerato il fondatore del circo.
Il film diventa subito interessante e vengo colpito da una meravigliosa canzone: Never enough (che poi scopro essere di Loren Allred). La sua voce potente e suadente mi ipnotizza. E mentre la musica e le parole scorrono, comincio a realizzare che il film si basa su due concetti fondamentali: la comunicazione e la diversità. Never enough è un punto di cuspide nella storia: la dolcezza di cogliere l’attimo e la consapevolezza di quanto tutto sia fugace.
Gli USA hanno basato la loro crescita su una storia fatta di diversità. Europei, asiatici, africani, nel corso degli anni passati hanno concorso a stratificare la società odierna statunitense. E la diversità è sempre stata un elemento di forza. Comunicazione e diversità. Comunicare la diversità. Un po’ come fece P.T. Barnum con i suoi spettacoli. Cogliere nella diversità l’originalità e la forza. E, soprattutto, saperla comunicare.
Oggi dagli States riceviamo un messaggio in contraddizione. Ci viene comunicata una chiusura, che stride con l’apertura che ha sempre posto gli USA tra i protagonisti nel mondo.
Le democrazie cambiano, così come i modelli economici; ma da sempre la chiusura, che sia essa rappresentata da dazi o protezionismi di ogni genere, non ha mai giovato all’economia. Manovre simili di chiusura rischiano di fare implodere nell’inflazione i paesi che le impongono, generando tensioni interne legate alla perdita di potere di acquisto delle fasce medio-basse delle popolazioni. E, oltre a ciò, chi rimane fuori dal perimetro “protetto”, cerca nuovi sbocchi economici, spesso impensati, per riequilibrare la bilancia import-export.
La comunicazione, dunque: uno strumento. Nel 1800 la si faceva con i manifesti, tappezzando i muri delle città. Oggi bastano pochi click, per tappezzare i nostri telefoni.
Continuo a pensare che l’apertura e la diversità siano sempre un’opportunità, se ben utilizzate. Ma bisogna avere la lungimiranza e la visione per coglierne i vantaggi potenziali.
Continua ad echeggiarmi in testa la splendida Never enough (Let it stay this way/Can’t let this moment end/You set off a dream in me). Sono davvero le parole di un’innamorata che si ritrova all’improvviso ad essere un’amante tradita e delusa?
Quando sarà il momento dell’Europa? Forse questo è davvero il tempo di capire che potremmo veramente avere un ruolo da protagonisti. Il momento di convincerci che l’occidente possiamo essere noi: l’Europa.
Forse gli altri siamo proprio noi. La maggior parte del mondo non è occidente e dobbiamo imparare a confrontarci con questa grande fetta di non occidente, che forse sta cercando un nuovo credibile interlocutore e che spinge alle nostre porte (Asie e Nord-Africa). Perché non facciamo che questo interlocutore sia l’Europa? Certo, che si debba ricorrere a una riunione di urgenza per evitare di rimanere fuori dai negoziati tra Ucraina e Russia, non è quel che si può definire un “buon inizio”. Ma almeno cominciamo a capire che se il mondo cambia, allora L’Europa deve cambiare.
Ma perché l’Europa diventi protagonista e padrona del proprio destino è necessaria una politica energetica (e non solo!) unita che possa sostenere i nuovi investimenti industriali e che ci renda finalmente liberi di scegliere come e dove investire. Serve una comunione d’intenti nelle decisioni strategiche e il sostegno all’industria, che tiene duro in un mondo globalizzato fatto da competitor che operano con regole non globalizzate.
Penso ora alle parole di Draghi nel suo rapporto sul futuro della competitività europea. Dobbiamo cambiare passo. Innovare investire in tecnologie.
Mi torna in mente un proverbio che ci ripeteva sempre un mio vecchio allenatore di calcio negli anni ’80: “Chi pecora si fa, lupo se lo mangia”.
Pensiamoci come un’unica nazione e studiamo un piano unico mirato alla decarbonizzazione senza penalizzare però la competitività. Decarbonizzare è (deve essere) un’opportunità. E lo deve diventare soprattutto per l’industria, affinché sia sostenibile… sotto tutti i punti di vista.
Never enough, quindi! Sviluppiamo le nostre strategie in autonomia. Never enough. Innovazione e tecnologia. Facciamo in modo di non essere un’Europa delusa e abbandonata. Costruiamo la nostra identità europea. Chi ha il coraggio di dirlo? Never enough!