di Antonio Gozzi, CEO Gruppo Duferco
Oggi siamo tutti concentrati sull’emergenza sanitaria contro la quale l’Italia sta combattendo al limite delle sue forze ma con grande coraggio.
Non sappiamo quando finirà, ma sappiamo che dipende dai nostri comportamenti. Se ci atterremo scrupolosamente alle regole, se resteremo chiusi in casa come si deve, il contagio finirà prima.
In questi giorni di isolamento la riflessione occupa molto del nostro tempo. Per il mestiere che faccio e per il mio background culturale mi concentro ovviamente sulle cose economiche, perché è su questo terreno che penso di poter dare il mio contributo.
Cerco di considerare i danni di quello che sta succedendo e di valutarli nella loro entità, ma mi sforzo anche di immaginare il dopo, perché siamo più forti del Coronavirus, lo batteremo, e poi bisognerà ripartire e ricostruire.
È questa in effetti, per la mia generazione, una situazione nella quale mai avremmo pensato di trovarci: alla fine potremo dire anche noi, come i nostri padri e i nostri nonni, di aver partecipato a una guerra.
La stragrande maggioranza delle attività commerciali è ferma; anche la maggioranza delle attività industriali specie a Nord si sta fermando o si è già fermata, eccezion fatta per le catene alimentari o dei prodotti necessari alla sanità.
Nessuno sa quanto questa situazione può durare ma certamente gli effetti economici della crisi saranno gravi, se si tiene conto che l’epidemia si sta allargando al resto d’Europa e alle altre aree del mondo. Una recessione economica generalizzata viene ormai data per scontata, e si comincia a pensare a come mitigarne gli effetti sulle imprese, sul lavoro, sulla vita di tutti noi.
Le riflessioni sul dopo girano tutte intorno allo stesso assunto: nulla sarà come prima, o comunque molte cose cambieranno, perché questo sconvolgimento è di tale portata che inevitabilmente cambierà il mondo.
Senza pretesa di organicità ed esaustività, elenco tre pensieri che mi sembrano importanti e sui quali si lavorerà nei prossimi mesi e anni.
Il primo pensiero è quello relativo alla più volte ricordata fragilità del mondo globalizzato. La straordinaria connessione tra le varie parti del globo, che ha costituito il paradigma degli ultimi 30 anni, oggi presenta il conto. Si è trattato di un periodo nel quale la crescita e lo sviluppo e la loro estensione su scala planetaria sono stati sorretti dall’affermarsi del libero scambio, del commercio internazionale e dei traffici marittimi a livelli mai conosciuti prima.
Oggi capiamo l’altra faccia della medaglia: il moltiplicarsi dei collegamenti e degli interscambi ha come contropartita la velocità e pervasività di diffusione delle crisi.
La crisi che abbiamo davanti è ancora più inquietante e misteriosa di quelle finanziarie del decennio precedente. Si tratta di una pandemia globale che si è diffusa con una velocità allarmante e che finora non si riesce a contenere a curare. L’unico strumento per contenere il contagio è l’isolamento delle popolazioni con tutto ciò che ne consegue.
Stiamo gestendo senza piani preparati prima una fase con moltissime incognite.
Vedrete che una delle conseguenze del Covid-19 sarà che svilupperemo sempre di più nelle aziende, nelle università, negli ospedali, perfino nelle famiglie, una cultura della gestione delle crisi. Impareremo ancora di più che nei momenti difficili occorre fare ricorso soprattutto a due cose: piani di contingenza preparati a suo tempo, e continuamente manutenuti, e leadership.
Valorizzeremo la pensata lunga, non ossessionata dai risultati immediati né da un’ideologia velenosa di capitalismo rapace e attento solo al breve periodo. Ci sforzeremo di pensare e costruire organizzazioni e strutture sostenibili nel lungo periodo anche sotto stress.
Capiremo ancor meglio che le leadership si costruiscono sul campo, vicino ai soldati, mangiando il loro rancio, dormendo per terra con loro, condividendo le loro speranze e paure.
Inevitabilmente rifletteremo sulla globalizzazione.
Ci sarà un rallentamento della globalizzazione e un ritorno alla regionalizzazione degli scambi e delle produzioni? Probabilmente sì, anche se bisognerà preservare e proteggere i grandi benefici del libero scambio cercando di evitare protezionismi e sovranismi che non hanno mai generato sviluppo e ricchezza.
In fondo una revisione, anche profonda, della localizzazione delle filiere produttive è già in atto da un po’. Molte produzioni delocalizzate in Cina sono rientrate negli ultimi anni e la ragione è molto semplice: vent’anni fa tra il costo del lavoro cinese e quello italiano c’era una differenza da 1 a 20, dieci anni fa era ancora da 1 a 10, oggi è da 1 a 2,5 e ben presto questa forbice si chiuderà ulteriormente. E se si chiude la forbice, perché rimanere ostaggi di semiprodotti e componenti che vengono da mondi lontani e che scontano le incognite della logistica in momenti di crisi?
Ma ci sono altre ragioni per ripensare la localizzazione delle filiere produttive. Sta riaffacciandosi il concetto di ‘produzioni strategiche’ che sono quelle che una nazione sviluppata deve comunque avere per non dipendere da altri. Per anni il solo evocare il concetto di ‘produzione strategica’ ha suscitato i risolini e le spietate critiche dei sacerdoti e degli ideologi di un liberismo senza limite e senza confine. La teoria dei vantaggi comparati ricardiani, portata all’estremo, ha voluto immaginare un mondo perfetto dove tutte le allocazioni dei fattori produttivi sono ottimali, dove le nazioni si devono specializzare in produzioni a loro congeniali e dimenticare il resto, che potranno comunque avere dall’estero a basso costo. Un mondo irreale, inesistente, come dimostra la crisi di oggi.
Le uniche produzioni strategiche ammesse dall’ideologia sono state quelle militari. Ma non sono strategiche solo le produzioni militari.
La pandemia ha dimostrato che ci sono molti prodotti, come ad esempio le apparecchiature mediche, che gli altri Stati, per national interest, non hanno alcuna intenzione di darti nel momento del bisogno. Il caso eclatante di questi giorni è quello delle attrezzature da terapia intensiva.
È possibile che un paese industrializzato e con un avanzato settore biomedicale come l’Italia non disponga di ventilatori e apparati da terapia intensiva? Per ragioni di divisione internazionale del lavoro queste non vengono prodotte in Italia.
Una cosa del genere non può e non potrà più succedere. Se le epidemie presenti e future sembrano attaccare spesso le vie respiratorie e i polmoni bisognerà in maniera previdente dotarsi di una capacità tale da poter essere autonomi nell’emergenza. Sarà sufficiente acquistare all’estero, in momenti tranquilli, attrezzature da mettere a magazzino o piuttosto non sarà più opportuno predisporre una capacità produttiva nazionale, magari attraverso accordi pubblico/privati?
Stesso ragionamento, molto banalmente, vale per le mascherine, quasi introvabili oggi in Italia per la semplice ragione che nessuno le produce per ragioni di rapporto tra costi e ricavi, e così in piena pandemia mancano mascherine e indumenti protettivi anche negli ospedali.
La seconda riflessione sul futuro riguarda ancora una volta l’Europa.
È in corso una dura partita politica che si sta giocando sotto la tragedia dell’epidemia: è la partita tra chi ha dell’Unione una visione solidale e chi ritiene che, una volta per tutte, vadano regolati i conti con l’Italia e il suo debito pubblico che crescerà ancora, e molto, nei prossimi mesi in conseguenza di questa crisi.
Il blocco del libero scambio di prodotti biomedicali all’interno dell’Unione, la gaffe/non gaffe della Lagarde, le incertezze e le resistenze della Germania e di altri paesi del Nord manifestate nell’Eurogruppo all’ipotesi di far scattare la clausola di dissolvimento degli accordi che prevedono al 3% il rapporto tra deficit e PIL, il ritorno in BCE dei falchi, in particolare i tedeschi Weidman e Schnabel, rintuzzati da Draghi negli anni della sua presidenza, sono tutti segni di questo profondo malessere europeo per noi inquietante.
Se non si è solidali oggi quando esserlo?
Non essere solidali nei momenti tragici come quelli che stiamo vivendo significa che al di là della retorica europeista ormai insopportabile, dell’Inno alla Gioia e della bandiera blu con le stelle dorate l’Europa rischia di non esistere o di esistere solo come espressione di una gigantesca burocrazia.
Al solito la partita più importante si giocherà in Germania, lo stato più grande e più ricco d’Europa. La leadership calante di Angela Merkel fa mancare un prezioso punto di equilibrio e di guida che in questi anni è stato fondamentale per il mantenimento delle relazioni italo-tedesche e di una visione solidale dell’Europa.
Se in questo momento passasse la linea dell’ognun per sé e dell’estremismo dei paesi nordici sulla disciplina di bilancio, l’opinione pubblica italiana la vivrebbe come un atto ostile con il rischio conseguente di un ulteriore rafforzamento delle posizioni sovraniste e anti-euro, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire.
Un piccolo esempio della scelta tra solidarietà e ognun per sé? In Germania sembra che ci siano 28.000 posti di terapia intensiva oggi in gran parte non utilizzati. I tedeschi sono stati, come al solito, più organizzati e previdenti di noi.
Sarebbe così difficile mettere a disposizione qualche centinaio di postazioni per aiutare il nuovo ospedale in Fiera a Milano a partire subito? In Lombardia oggi si incomincia a morire per mancanza di posti nelle terapie intensive. Un gesto della Germania in questo momento tragico per l’Italia sarebbe altamente simbolico e gli italiani non lo potrebbero dimenticare.
Ultima ma non meno importante riflessione: lo stato della Sanità pubblica in Italia.
Il dramma di un paese ad alto debito è quello di non riuscire a fare investimenti. La ferrea disciplina di bilancio imposta dall’Europa e la rigidità della spesa pubblica hanno provocato in Italia negli ultimi vent’anni un crollo clamoroso degli investimenti pubblici in infrastrutture, scuole, università, sanità.
Quando si deve tagliare la spesa è molto più facile e meno penoso nell’immediato tagliare la spesa per investimenti piuttosto che quella di parte corrente fatta soprattutto da salari e stipendi.
Nella sanità pubblica italiana negli ultimi venti anni si è riusciti nel miracolo di tagliare sia la prima che la seconda.
Si calcola che sia attraverso il taglio degli investimenti che della spesa corrente la sanità pubblica in Italia abbia dato un contributo enorme al contenimento della spesa pubblica, si parla di oltre 37 miliardi negli ultimi dieci anni.
Dal 2010 il Servizio Sanitario Nazionale ha perso 40.000 dipendenti a causa di pensionamento e/o emigrazione.
Nei prossimi dieci anni mancheranno 22.000 medici di medicina generale e in totale mancheranno 47.000 medici del Servizio Sanitario nazionale. Attualmente mancano 53.000 infermieri.
Purtroppo il taglio della spesa è lineare, cioè uguale per tutti, il che significa che ha sacrificato le strutture organizzate ed efficienti, le più meritevoli, che risiedono soprattutto a Nord e non ha penalizzato le strutture inefficienti e sprecone che stanno soprattutto al Sud. Non si riesce a fare, nonostante tutti gli sforzi, un’analisi dei costi standard che aiuterebbe a comprendere perché una Tac a Nord costi un terzo di quello che costa al Sud.
Anche qui la crisi del Coronavirus insegnerà tante cose. Non è più tollerabile una politica che sacrifichi la sanità pubblica, e qui ce n’è per tutti, governi di centro destra e governi di centro sinistra che si sono succeduti negli ultimi vent’anni alla guida del Paese. Ma non è neanche più tollerabile, visto che la competenza della sanità è regionale, che si lascino senza controllo e senza sanzioni regioni che spendono male o sprecano i soldi degli italiani e che mantengono il livello della sanità pubblica basso o addirittura scadente.
Merito e bisogni sono strettamente legati, non si può pensare ai secondi senza premiare il primo. Bisogna ripartire da lì.
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