di Francesco Lepre
Facciamo due conti in punta di penna. Quanto tempo passiamo sulla nostra auto?
Ci sono strade, soprattutto nelle grandi città, dove il traffico in determinate ore del giorno è cronico. Chi, vivendo nella Capitale, non conosce il celeberrimo viadotto della Magliana? Chiedere a un romano di attraversarlo nelle ore di punta è come chiedere a un genovese se nel pesto ci va la panna… una ferita insanabile!
Un serpentone composto da cinque chilometri di auto che transitano a una velocità media di 5, 10 chilometri orari, se va bene. Perché se il traffico è intenso, c’è tutto il tempo per fare amicizia con il vicino di auto. Tutto questo per almeno un’ora e mezzo al mattino e un’ora e mezzo al pomeriggio.
Esistono diversi modelli utilizzati nella pianificazione e controllo dei trasporti ma, volendo basarci su ipotesi semplici di andatura uguale per tutte le auto, possiamo calcolare lo spazio medio occupato da ogni macchina (compreso anche di distanza di sicurezza) in transito alla velocità di 7,5 chilometri all’ora. Poi, moltiplichiamo il tutto per due corsie e troveremo le auto che transitano: oltre quattromila. Tutto questo solo la mattina, in una sola strada!
Un’ulteriore considerazione va fatta sul numero medio di persone occupanti ogni auto che, nelle ore di punta dei giorni feriali, è pari a circa uno virgola un’anticchia (dove l’anticchia nella maggior parte dei casi è rappresentata da un bimbo imbrigliato sul suo seggiolino, intento a guardare le nocche bianche di nervosismo delle mani di mamma o papà strette sul volante).
Insomma, un’ora per percorrere cinque chilometri. E non ci addentriamo sul tema emissioni CO2, comunque facilmente calcolabili: internet è piena di tabelle al riguardo.
Infine, un collega che arriva in ufficio dopo avere trascorso un’ora nel traffico è più furioso di un toro di fronte a un torero che balla il flamenco con maracas e drappo rosso. Meglio lasciarlo stare, credetemi!
Ha senso tutto questo?
Nell’immediato dopoguerra ci trovammo a dovere decidere che tipo di Italia avremmo voluto essere. E la scelta riguardò anche il nostro modo di muoverci. All’interno delle città, all’interno del Paese.
Scegliemmo la privatizzazione, soprattutto. Certo, i mezzi di trasporto pubblici non potevano mancare, ma la nostra auto divenne prima un mezzo di trasporto sinonimo di libertà e poi uno status symbol. Le auto divennero una per famiglia, poi due e via così… Ancora oggi in Italia (più che all’estero) molti di noi faticano a “staccarsi” dal concetto di proprietà dell’auto. Questo è evidente anche dalle pubblicità, dove spesso passa il messaggio che la macchina dice di noi molto più di quello che pensiamo, facendo leva sul nostro narcisismo. La nostra auto dice chi siamo, come la pensiamo, che ruolo abbiamo nella nostra società.
Giorgio Gaber lo sapeva bene e nel 1968 ironizzò anche su questo. La mia Torpedo blu, l’automobile sportiva che mi da un tono di gioventù. Che meraviglia! Come rende bene l’idea, con il doppio petto e il cappello! Eppure, solo qualche anno dopo avremmo dovuto affrontare le domeniche a piedi…
Uno status symbol, dunque. Un po’ caro, forse… un investimento a perdere, volendo vederlo dal punto di vista economico e ambientale: utilizzato per meno del 10 per cento della sua vita utile (un paio d’ore ogni giorno e, per la maggior parte di noi, in mezzo al traffico), per meno del 20 per cento del suo spazio utile (una persona per ogni auto), per meno del 10 per cento della sua velocità utile (15 km/h?), per distanze percorse irrisorie. E tanta CO2 buttata in atmosfera, bollo, assicurazione e manutenzione…. Insomma, un giocattolino un po’ costoso.
Alla fine del lockdown c’erano decine di auto attaccate a cavi elettrici per ricaricare le batterie. Una macchina è fatta per camminare! Ma la vera domanda è: noi dobbiamo davvero camminare così tanto?
Tralasciando i casi in cui le auto sono davvero necessarie, questo contesto emergenziale ci sta insegnando che possiamo vivere anche in modo diverso, anzi lo dobbiamo fare. Tanto lavoro da casa e qualche spostamento intelligente.
Il solco sembra tracciato dunque, anche considerando che nelle condizioni pre-Covid, per lunghi tratti di strade la velocità media in auto era paragonabile a quella di una bicicletta (senza neanche la pedalata assistita).
Occorre essere un po’ visionari. Oggi possiamo concedercelo. Questo virus ci ha tolto molte certezze. Sta tentando di allontanarci gli uni dagli altri. “Vediamo che succede nei prossimi mesi”, spesso sento dire. Dobbiamo rispettare le regole, ma anche immaginare il nostro futuro.
Camminando per le strade delle grandi città ormai è impossibile non imbattersi in monopattini in sharing, come anche in bici condivise e auto con tesserine. Sempre più spesso si tratta di mezzi elettrici e questo è un bene. Ma quello che è fondamentale è la filosofia con cui cominciamo a rapportarci con il nostro modo di muoverci.
Molti giovani ormai stanno entrando nell’ottica di una condivisione dei mezzi. La tecnologia ci supporta in pieno. Basta una app per rintracciare il mezzo di locomozione più comodo e più vicino a noi. Poi, quando finiamo di utilizzarlo, lo possiamo lasciare parcheggiato senza pensieri. Sembra il futuro!
Le ciclabili nelle città stanno aumentando. Ci vuole qualche regola in più, soprattutto stradale. Magari qualche verbo in più: in auto si guida, in bici si pedala… e in monopattino? Confidiamo nel linguaggio dei giovani, che in un click uploadano l’aggiornamento dello slang. Ci stiamo attrezzando, insomma.
Anche le infrastrutture pubbliche hanno il dovere di accompagnarci in questo cambiamento. Non potremo essere soli. E salire su un autobus non dovrà più essere l’impresa di Fantozzi sulla tangenziale alle 7:30 del mattino (“Coraggio, ragioniere!!!”).
Il bilancio di tutto questo?
Meno spese per le singole famiglie, meno traffico nelle città, una qualità dell’aria migliore, meno inquinamento acustico. E per fare amicizia non dovremo più trovarci bloccati in mezzo al traffico sul viadotto della Magliana…
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